February 17 2025
Intervista a Jacopo Zambello
Intervista tratta da Parola d'Artista
13 febbraio 2025
Parola d’Artista: Per la maggior parte degli artisti, l’infanzia rappresenta il periodo d’oro in cui iniziano a manifestarsi i primi sintomi di una certa propensione ad appartenere al mondo dell’arte. È stato così anche per te? Racconta.
JZ: Sono cresciuto in una certa dimensione artistica: mio padre mi insegnava a suonare la chitarra e mia madre mi faceva disegnare. La carriera artistica era una possibilità come le altre. Alle medie ero ugualmente interessato all’arte quanto alle materie scientifiche. La domanda su quale strada intraprendere è stata una questione che ho dovuto risolvere da solo, visto che i miei genitori
supportavano entrambe le scelte. Si può dire, quindi, che sia stato un processo piuttosto organico. Il vero rigurgito interiore lo ho avuto al quinto anno di superiori (Liceo artistico – grafica), quando decisi di andare a fare pittura all’accademia, invece che a una scuola di grafica. La pittura era come una necessità che avevo trascurato fino a quel momento e che adesso richiedeva il suo tempo.
Pd’A: Anche tu, come tanti, hai avuto un primo amore artistico?
JZ: Non so bene come rispondere, ho avuto (e ho tuttora) artisti che ho amato molto. Più avanzo nel mio percorso di ricerca, più riesco a trovare elementi che mi interessano in tutti gli artisti e, allo stesso tempo, quelli che mi erano idoli diventano più umani ai miei occhi. Ho ovviamente delle preferenze personali. Posso dire che, nel mio primo anno di accademia, ho avuto modo di vedere, nell’arco di pochi mesi, la retrospettiva di Luc Tuymans a Palazzo Grassi, un ritratto di Victor Man e uno di Michael Borremans a Ca’ D’Oro. Iniziare confrontandomi con tre giganti della pittura contemporanea lascia il segno.
Pd’A: Puoi descrivere il tuo processo di lavoro?
JZ: Il mio lavoro si divide in cicli tematici, partendo da una macro ricerca sulla percezione della realtà, che via via si suddivide in temi a seconda del periodo.
Metodologicamente, il mio lavoro si sviluppa attraverso una costante ricerca di immagini. Le fonti variano: fotografia amatoriale, materiale d’archivio o la produzione ex novo di reperti fotografici per una particolare serie di lavori. Il materiale fotografico di partenza viene successivamente rielaborato nel disegno, andando a modificarne gli elementi per costruire quella che è l’ossatura dell’immagine finale. Nella fase pittorica, il lavoro subisce ulteriori modifiche, lasciando l’immagine aperta ai suggerimenti della pittura stessa. Più che una bozza, il lavoro di progettazione del dipinto serve a creare una “Moodboard” per descrivere quello che sarà l’opera compiuta, che rappresenta un unicum maggiore della somma delle sue singole parti.
Il dipinto finito può essere un assemblaggio di anche 10 fotografie, unite a modifiche ulteriori tramite il disegno e zone create ex novo dalla pittura (ad esempio, gli sfondi).
Pd’A: Parti da delle fotografie o dipingi dal vero?
JZ: Parto dalle fotografie, mie o d’archivio, fortemente rielaborate da pittura e disegno. Spesso assemblo anche più fotografie insieme e invento intere parti. La mia pittura risulta quindi una cosa altra rispetto al documento fotografico, che uso come uno strumento di pragmaticità. Bacon diceva che la fotografia è più comoda di avere un modello in studio.
Pd’A: Nei tuoi dipinti il soggetto principale è il corpo umano spesso colto mentre si esibisce in vari modi (nudo, azioni sportive…) perché ti interessa tanto ?
JZ: Il corpo non è il mio punto di interesse, ma il soggetto su cui convergono i miei interessi. Posso trovare certe rappresentazioni del corpo incredibilmente noiose e, viceversa, amare profondamente i paesaggi. Trovo nel soggetto umano, figurativo, il vocabolario necessario alla mia ricerca. Se quest’ultima dovesse cambiare direzione, cambierebbero anche i miei soggetti. Personalmente non penso accadrà, almeno nel breve periodo, perché, per quanto sia vero quello che ho appena detto, sento una certa tensione interna verso questi soggetti che va assecondata per permettermi di lavorare con agilità. Dipingiamo ciò che possiamo, a prescindere dalla nostra volontà.
Pd’A: Che importanza ha per te l’idea di racconto?
JZ: Questa è una domanda che mi sono posto molto durante l’ultimo anno. Per me, il racconto è necessario all’interno del mio lavoro, altrimenti si cadrebbe nell’estetismo. Tuttavia, per me è importante porre ciò che racconto in uno stato di sospensione. L’immagine dei miei dipinti cerca di porre una domanda allo spettatore, non vuole né affermare una verità né tanto meno raccontarla. Nella mia visione, la pittura è uno strumento di narrazione passivo, che lavora sul non-detto.
Pd’A: Il disegno ha una qualche importanza in quello che fai?
JZ: Il disegno è la base fondamentale di tutto il mio lavoro. Lavorare su carta mi dà quella scioltezza di pensiero, senza l’ansia da prestazione che può dare la tela, permettendomi di sperimentare e indagare i soggetti che mi interessano. A livello pratico, si vede subito se nel lavoro di qualcuno c’è stata una fase di disegno prima. Lo sketchbook è un quaderno degli appunti: ogni intuizione può tornare utile, anche a mesi di distanza. Probabilmente è la fase del mio lavoro più personale, dove emergono i miei interessi più profondi.
Pd’A: Che ruolo ha la luce nel tuo lavoro?
JZ: Le tematiche della percezione, che fanno da filo rosso al mio lavoro, portano alla presa di coscienza dell’impossibilità di una comprensione univoca della realtà.
Questa frattura nella nostra percezione, e il senso di horror vacui che ne scaturisce, vuole evidenziare la paradossale esistenza di un filo conduttore tra le varie e molteplici esperienze umane.
La luce, in questo contesto, è uno strumento prezioso. Uso luci forti, ombre, il bianco, la plasticità mediterranea o la foschia tipica delle mie zone (sono originario di Rovigo). Tutti questi elementi servono a calare la scena in differenti declinazioni della realtà tramite la luce.
Pd’A: Ti interessa la dimensione pittorica?
JZ: Nel mio lavoro, la dimensione pittorica e tecnica sono molto importanti. Cerco sempre di non perdermi dietro i tecnicismi della pittura, ma sono in una costante ricerca di materiali e metodi nuovi per fare le cose. All’interno della tela, la dimensione pittorica diventa tutto. La mia pittura si basa molto sulla massa: quantità generose di colore e stratificazioni. La tela è un oggetto che va approcciato con energia, non passivamente, focalizzandosi solo su una resa superficiale dell’immagine. Grazie a questo metodo, trovo spesso nuovi spunti suggeriti dalla pittura stessa.
Pd’A: Che importanza hanno le categorie di tempo e spazio per te?
JZ: La natura della pittura è quella di creare immagini sospese. Se la fotografia cattura l’istante, la pittura lavora su una dimensione temporale dilatata. Nell’istante del dipinto è insito anche il prima e il dopo: non c’è una reale presenza temporale quanto più un’idea. Nel mio lavoro ricerco la dimensione atemporale della pittura.
Lo spazio, nel mio lavoro, è parte dell’opera tanto quanto lo sono le figure. Non c’è una dimensione gerarchica tra lo sfondo e il soggetto: tutto risulta parte di un unicum che è il dipinto. Non si può ragionare in modo scollegato. Spesso sono gli sfondi gli elementi dove interviene maggiormente la pittura libera da reference fotografiche.
Queste due categorie, tempo e spazio, sono le fondamenta su cui poggiano i miei soggetti.
Pd’A: Quando devi fare una mostra ti interessa l’idea di messa in scena del lavoro?
JZ: La considero fondamentale. La mia azione nei confronti dell’allestimento è sempre attiva e in dialogo con lo spazio. Non mi risulta possibile concepire una mostra che prescinda dalla sede espositiva. Accettata l’impossibilità di proteggere il dipinto dalle interferenze visive dello spazio, l’unica azione possibile è appropriarsi dello spazio come strumento narrativo. Concepisco la stanza come un unico lavoro e non come un contenitore, probabilmente con un ragionamento più proprio della scultura/installazione che della pittura. Normalmente lavoro inserendo stampe fotografiche di miei scatti o collage, tele girate, prato sintetico e posizionando le tele in maniera organica, fuori dalla normale linea orizzontale a 160 cm dal centro della tela.
Pd’A: Che importanza ha la relazione che si viene a creare fra i vari lavori che decidi di esporre insieme?
JZ: Come dicevo prima, il mio focus è sulla stanza, non sul singolo lavoro. Se devo sacrificare la giusta visibilità di un lavoro (ad esempio mettendolo molto in alto) per il funzionamento della stanza, lo faccio senza ripensamenti: se non funziona la stanza, non funzionano nemmeno i
dipinti. Quindi la relazione tra i lavori risulta per me importantissima. Spesso porto un unico ciclo in mostra per ottenere la soluzione di continuità più naturale possibile. Come nella pittura, anche nelle mostre vale il principio di parità tra cosa si dice e come lo si dice.
Pd’A: Quando dipingi lavori ad un quadro alla volta o ne lavori più di uno simultaneamente?
JZ: Più di uno simultaneamente. Comincio facendo molti disegni, da questi seleziono i piû interessanti e inizio a lavorare 3-4 tele contemporaneamente. Faccio così sia per ragioni pratiche, per ragioni di tempo, che poter “aprire” il ciclo di lavori e portare avanti più di un ragionamento contemporaneamente.
Pd’A: Che idea hai della bellezza?
JZ: Domanda complessa, la bellezza è una qualità estetica, non esclusivamente visiva, che riguarda la pittura solo in una certa misura. Non cerco il bello ma ciò che è interessante. L’estetismo è una zona dell’immagine di cui cerco di evitare la frequentazione. Probabilmente fraintendiamo, me compreso, il concetto di “bello” con la gradevolezza percettiva. Una definizione, assolutamente personale ed arbitraria, di bello è: la bellezza è ciò che ci suscita una tensione, un interesse, viscerale.
Pd’A: Qual è la tua posizione rispetto al tuo lavoro?
JZ: Penso che il mio lavoro attualmente sia in una fase di crescita costante. Tutto quello che faccio è costantemente da me messo in discussione. La ricerca non si ferma mai e ogni ciclo porta semi nuovi per la produzione di quello successivo. Non tutti i cicli sono di pari qualità, ma sono abbastanza sicuro che la curva sia positiva.
La mia posizione è l’unica possibile per un artista nei confronti del proprio lavoro e si riassume in: è lavoro. Non possiamo che continuare a lavorare, a cercare, a produrre e a mettere in discussione. Non è una partita a breve termine ma si gioca nel lungo periodo. Questo è il bello del nostro mestiere, non si ferma dopo un bel quadro, o magari uno brutto, ma va avanti. L’unico lavoro che ci interessa davvero è quello che faremo domani.
Jacopo Zambello (Rovigo, 1999), frequenta attualmente il biennio di Pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Nel 2022 vince la sezione Pittura della XIV edizione del Premio Nocivelli. Nel 2023 vince il Martini International Award al Premio Artivisive San Fedele e viene inserito nel libro “222 Artisti Su Cui Investire” edito Exibart. Èatelierista presso l’Istituzione Fondazione Bevilacqua La Masa a Venezia nell’anno 2023-24. Nel 2025 è tra i vincitori dell’ottava edizione di We Art Open. Partecipa a numerose mostre, tra cui: (2025) New Art Frontiers, Altro Mondo Creative Space, Makai City, Filippine; (2024) Campo Magnetico, Fondazione Bevilacqua La Masa – Palazzetto Tito, Venezia; La prima volta, Casa Testori, Novate Milanese (MI); Chi sono io – Indagini sul corpo, Galleria San Fedele Milano; Uscita Pistoia #1, Spazio A, Pistoia; (2023) Antares, Magazzini del Sale, Venezia; (2022) Le Stanze del Contemporaneo, Palazzo Martinengo, Brescia.
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