30 set 2024

Sergio Padovani: tra strati bituminosi e lamine d’oro

Articolo tratto da Rivista clanDestino - Roberta Tosi
27 settembre 2024

Emergono da fondi magmatici, strati d’olio, bitume, resina, affiorano con una forza stalagmitica che travolge anime e luoghi-non-luoghi, si muovono e abitano inquietudini, colpe, segreti custoditi da tempo immemore: ha rinchiuso lì i suoi demoni, Sergio Padovani, i suoi ma non solo suoi. Vi è entrato come un antico alchimista, lavorando alla nigredo, affrontando il viaggio frammentato e perturbante tra le paure, le inquietudini, i baratri dell’essere umano. Ne ha ripercorso lo smarrimento, a tratti la follia, la loro impensabile sacralità.

«Tra tutte le arti, la pittura è probabilmente la sola che incorpori necessariamente, “istericamente”, la propria catastrofe e, a partire da ciò, si costituisca come fuga in avanti. Alle altre arti la catastrofe è tutt’al più associata. Ma lui, il pittore, passa attraverso la catastrofe, afferra il caos, e prova a uscirne». Aveva scritto così il filosofo Gilles Deleuze negli anni ’80 del Novecento pensando a Bacon. E forse il riferimento alla sua disarmante e sconvolgente unicità non è del tutto casuale guardando al lavoro di Padovani.

Tornano infatti le parole di Deleuze nel soffermarsi tra gli esseri misteriosi e corrotti di Sergio Padovani, creature mosse da un inafferrabile Pandemonio, quello che dà titolo alla mostra esposta prima a Roma ai Musei di San Salvatore in Lauro, poi a Modena, nel Complesso di San Paolo. Un Pandemonio da cui essere travolti non appena si varca la soglia che lo ospita e che scorre tra sessanta dipinti: un dedalo inestricabile, un labirinto di volti, mani, corpi, materie formate e informi, enigmatiche e inquiete che volgono il loro sguardo verso di te, ti chiamano, ti scrutano, lanciano le loro mute parole mai così eloquenti.

A volte nascono anche così le opere di questo artista modenese, da una parola ascoltata o incontrata per caso (se il caso esistesse), una parola che d’un tratto sosta, s’imprime nella carne, forma nuove radici e l’attraversa fino a spalancare infiniti e possibilità.

Viene quasi da sé rammentare per questa mostra il neologismo di Milton, nel suo Paradise Lost, ma in realtà Padovani non ha guardato al poema dell’autore inglese bensì alle poesie di un poeta mantovano come Ivano Ferrari, e ne è scaturito uno sconvolgimento che si è insinuato come una folgore nel suo sentire, nel percepire l’arte, tanto da divenirne il fulcro della sua cifra essenziale e artistica.

Il caos, il pandemonio, hanno così preso dimora nella sua pittura, si sono radicati nella tecnica, nella personificazione dell’animo umano, fino a toccarne le più intime e percosse vibrazioni, fino a strapparne brandelli che si evolvono in forme impossibili, a tratti liquide, altre pietrose.

È come se in queste stratificazioni di colore e materia, trasparisse quel “romanticismo nero” che aveva sedotto gli artisti agli albori dell’Ottocento: i corpi martoriati di Géricault, la carogna di Baudelaire… Abisso che invoca le trasparenze luminose, le reclama ma sembra invece restare impietrito nel suo tormento. Facile evocare il visionario simbolismo di un Bosch, l’iconografia medievale o l’arte smarrita e turbata di Alfred Kubin, riferimenti certi per l’arte colta di Padovani ma lo sguardo qui si plasma a un diverso sentire, visivo e sonoro su quella soglia fragile e impalpabile che dall’incubo sviene nel sogno.

E allora non puoi non chiederti quali mondi, quanti mondi abiti il segno raffinato e precisissimo di questo artista modenese. La sua arte si ritrova ad animare luoghi introvabili che hanno a che fare “con l’evidenza impenetrabile, col principio e l’indicibile”, per dirla con le parole di Andrea Emo. Smarriti e persi, i suoi esseri dolenti, le sue fragili creature vivono la superficie e le profondità del dipinto, prigionieri in materie ed evoluzioni stratificate che sorprendono, mentre appaiono custodi di abissi inviolabili. Lì, proprio al fondo dell’animo umano, si trattiene la pittura di Padovani come se ne fosse l’ospite privilegiato e a lui solo potesse essere rivelato. S’inoltra fin dove il respiro glielo consente e forse anche oltre. Un viaggio esistenziale in un universo eccessivo in cui si alimentano e si sovrappongono piani narrativi differenti che si trovano al crocevia di dannazioni e grazie.

La sua pittura non è certo quieta né pacificata, eppure tra i fondi bituminosi e le lamine d’oro accede a cieli differenti, a speranze inattese. Svolti allora tra le opere e nell’ultima sala, proprio alla fine, trovi lei… Ed è come se avessi attraversato l’inferno dantesco, le anime dei dannati e quelle dei purganti e una luminosità accorta e inaspettata ti raggiungesse, di più, ti accogliesse. Uno squarcio tra i corpi sfiniti e sfibrati carichi di mestizia, un brivido che eleva e affiora da acque eterne fino a toccare una volta d’infinito giottesco.

Tra queste stelle aperte, come le ha chiamate Padovani stesso, senti giungere così un canto antico, l’armonia dell’universo, la speranza di una comprensione profonda, la promessa dischiusa di una redenzione attesa.

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