28 nov 2024

Pittura come esperienza salvifica. Un dialogo con Sergio Padovani

Tratto da Espoarte - Francesco Liggieri
28 novembre 2024

Sergio Padovani. Opere dal 2018 al 2024 è la personale di Sergio Padovani, negli spazi di Fondazione THE BANK ETS e a cura di Cesare Biasini Selvaggi che conclude il tour italiano e internazionale dell’artista, avviato all’inizio del 2024 presso i Musei di San Salvatore in Lauro a Roma e proseguito con tappe a Modena (Complesso di San Paolo) e Parigi (Galerie Schwab Beaubourg).
La personale si sviluppa in percorso espositivo articolato sui due piani della Fondazione, presentando alcune delle principali opere del progetto Pandemonio, unitamente a dieci lavori inediti, realizzati ad hoc per la mostra. Un’occasione per incontrare il lavoro di Padovani e riflettere su un’intera ricerca…


Se tu dovessi presentarti a chi non ti conosce, e dovessi farlo con il titolo di un’opera d’arte, quale sarebbe?

Sarebbe Quando la vita si svegliò al fondo della materia oscura, dalla serie del 1883 Les origines del francese Odilon Redon.

Sull’arte si è detto e ridetto tutto e di più. Secondo te che ruolo ha oggi nella nostra società?

Purtroppo non ricopre il ruolo che le spetterebbe. Il passato ha visto l’arte come protagonista della comunicazione, della spiritualità, dello sviluppo e della crescita dei popoli; i movimenti artistici hanno segnato le rivoluzioni, il progresso economico, la critica sociale e politica, le ribellioni generazionali… Oggi l’arte è, a mio parere, maggiormente confinata, e quasi esclusivamente declinata come parte della “cultura di una società”. Si usa la parola arte o artista senza più la consapevolezza che meriterebbe il termine, spesso rendendola nulla più che un comodo contenitore lessicale. Nonostante ciò l’Arte continua a mantenere una forza libera ed esplosiva, capace di salvaguardare l’uomo.

Esiste un luogo ed un momento che identifichi come l’inizio del tuo percorso e del tuo lavoro?

Esiste. Parigi, prima decade del 2000. Con un passato prossimo da musicista alle spalle, senza sapere assolutamente nulla di pittura, per puro caso ho visitato una mostra del sopracitato Redon, ed in quel luogo, improvvisamente, osservando le piccole opere, fresche, potenti ed immediate del geniale visionario del XIX secolo, ho intravvisto la possibilità di una comunicazione con me stesso molto più intima, libera ed adeguata al sentire di quel mio complicato periodo. Ho abbracciato la Pittura come si abbraccia la propria madre, e l’ho fatto quel giorno stesso.

Come artista, quale pensi sia il tuo dovere nei confronti della società?

Accogliere l’urto dell’esistenza sul proprio corpo e nella propria mente; viverne con estrema consapevolezza le sue contraddizioni, le sue bugie e le sue verità, le sue bellezze e le sue spregevolezze, e poi porre il tutto, con la naturalezza di un bambino, su di una tela, come fosse la cosa più normale e necessaria al mondo.

Hai parlato durante la conferenza stampa della tua personale a Bassano del Grappa presso Fondazione The Bank, della pittura come di un’esperienza “salvifica”. Cosa intendi con questa espressione e in che modo la pittura ti ha aiutato nel tuo percorso personale?

L’aggettivo “salvifico” è un termine che amo molto. La sua caratteristica semantica lo descrive come “atto a garantire la salvezza”. E questa sicurezza, che ci parla di rifugio e di redenzione, è il bisogno più ancestrale dell’uomo, è il fine ultimo da ricercare nei miei quadri, è la certezza che sprona l’essere umano ad affrontare i personali piccoli o grandi inferni quotidiani e a sconfiggere i nostri demoni domestici. Io ho avuto l’incommensurabile fortuna di incontrare, lungo il mio percorso, la mia grande arca di Noè: la pittura. Non avendo ricevuto e non avendo assolutamente voluto nessun insegnamento in proposito, ho vissuto questo inaspettato incontro come un amore folle ed incontrastabile che ha preso pieno dominio della mia vita. Essa rappresenta, dunque, per me, la cartina tornasole per ogni mia lettura del contemporaneo, il lemma per ogni ragionamento, la mano che indica la direzione ma, soprattutto, il corpo infinito sul quale depositare ogni mia verità.

Il simbolismo e le figure spettrali sono ricorrenti nel tuo lavoro. Qual è il significato di questi elementi e cosa speri che trasmettano al pubblico?

I simboli permeano la nostra vita da sempre. Rendiamo simboli oggetti, avvenimenti e, addirittura, esseri umani. Mi è risultato spontaneo inserirli nel perimetro dei miei lavori, soprattutto perché ne hanno necessità i personaggi che, in questo stesso perimetro, riconoscono i confini del loro strano mondo. Onestamente spero sia chi li osserva ad essere parte attiva e a riconoscersi, almeno in una piccola percentuale, negli individui inadeguati, nelle figure instabili che rappresento e che non definirei spettrali (in quanto per me irriducibili esibizionisti di carni ed emozioni) ma piuttosto “umanamente teatrali”. Almeno questo, il riconoscermi, è quello che io, da fruitore di arte, faccio dinanzi ad un’opera che, silenziosamente, in mezzo a tante altre mute, mi parla.

Le tue opere sembrano esplorare temi complessi come l’alienazione, la sofferenza e la spiritualità. Da dove trae ispirazione il tuo immaginario? Ci sono influenze particolari, artistiche o personali, che consideri fondamentali?

È vero, non amo particolarmente la pittura che affronti temi cosiddetti “leggeri”. L’uomo ed il mondo sono materie estremamente complesse, intricate e sconosciute, e, di conseguenza, l’arte di queste condizioni, credo debba parlare. Considero la mia pittura molto lirica, estremamente legata alla parola, ed è infatti quest’ultima, ascoltata o scritta, che risuona come mia principale ispirazione. Qualunque elemento, anche casuale, presente nel mio circostante, può essere per me fonte di suggestioni, ma, sicuramente, il mio personale vissuto ed il mio bagaglio di esperienze, comprensivo di quelle più drammatiche, sono la chiave per rileggere ed accorpare il tutto.
Le influenze artistiche sono più che presenti nel mio lavoro, e sono naturalmente infinite, dai più conclamati Goya, Ensor, Bosch, Dell’Arca, Van der Weyden, Kubin, Dorè, Böcklin, Rosa, Ferroni, Vespignani, Bacon, ecc… Ai meno evidenti Brus, Delvaux, Giacometti, Rousseau, Nolan, Magritte, Kupka, Bellmer, Rainer, Arndt, Barney, Oldenburg,Vedova, Medardo Rosso, Burri.

Quanto è importante la ricerca della bellezza nel tuo percorso?

Fondamentale. Per me, però, bellezza significa armonia, composizione, intelligenza, musicalità, comunicazione, coraggio, intuizione, tecnica esecutiva non accademica, ma soprattutto deve essere ragione veristica della visione. Peste di Böcklin o Grande impresa! Con morti! di Goya, non sono opere “belle”, ma sono capolavori inarrivabili.

Se tu non fossi un artista, cosa ti sarebbe piaciuto fare?

Impossibile uscire fuori dall’arte… Farei qualcosa che già faccio parallelamente: comporre musica.

Puoi condividere qualche aneddoto interessante o curioso legato a una delle tue opere?

Tornando al discorso sul lirismo del mio lavoro, l’opera Il bacio è nata scrivendo su tutto il perimetro della tela, dal lato in alto a sinistra fino al lato in basso a destra, tutto quello che stavo vivendo nei due giorni di realizzazione del quadro. È stato un processo ininterrotto, che mi ha portato a riscrivere spesso su parti già piene di parole, sovrapponendo in un movimento caotico ed opulento lettere e concetti, idee e opinioni. In questa sorta di pratica compulsiva ho finalmente individuato il tema giusto: la negazione della morte. È sopraggiunta così la pittura a cancellare tutti o quasi gli scritti e a dare, finalmente e definitivamente, una narrazione visiva al quadro.

Come affronti la sfida di evolvere artisticamente nel corso del tempo senza perdere la tua identità creativa?

Senza nessuna pressione e senza particolari timori. Le mie opere le vivo come “inchieste” e quindi si evolveranno naturalmente in funzione alle domande che continuerò a pormi osservando i tempi che sto vivendo. L’unico “dictat”, riguardo al mio lavoro, è di cercare sempre il rischio, di non ripetere e di non ripetermi, di contemplare il fallimento come parte onnipresente del dipingere e di dare ad ogni opera la ragionevolezza della sua reale esistenza nel mio percorso di pittura.


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